Massimiliano Pelletti
2022
Massimiliano Pelletti: guardando avanti verso il passato

“L’antichità non ci è data in consegna di per sè, non è lì a portata di mano, al contrario tocca proprio a noi saperla evocare.”
Novalis

Il complesso di opere che costituiscono la prima mostra di Massimiliano Pelletti in terra calabrese, scandiscono un ipotetico viaggio attraverso l’articolato concetto di classico che anima la poetica dell’artista e nel suo stratificato e articolato universo creativo e mitopoietico.
Un viaggio a ritroso nel tempo, ma anche nella memoria collettiva dove si è stratificata l’immagine del classico e un pellegrinaggio nei luoghi nell’iconografia che hanno ispirato e sostanziato l’opera di Pelletti.
Un viaggio sul filo della nostalgia, nella camera della memoria, un travelling without moving nello spirito di Xavier de Maistre1, a sottolineare ancora una volta che il viaggio è cosa mentale.
Un viaggio a cui il visitatore-spettatore invitato a partecipare in maniera attiva, che funge anche da antidoto a quella sindrome imperante da quando internet e social networking hanno ristretto e uniformato il mondo fisico. Pelletti invita alla riscoperta della funzione che animava la narrativa di viaggio, che si trasformata oggi in distopia e la differenza in famigliarita diffusa; una battaglia contro la cosiddetta obsolescenza programmata delle immagini.2 La mostra ospitata nella splendida cornice museale del MARCA, rappresenta anche un’approfondita riflessione – soprattutto metalinguistica - di un’artista che, nonostante la giovane età, superati i 20 anni di carriera artistica, analizza progressi e conquiste, ma soprattutto mette sotto la lente di ingrandimento (sua e del pubblico) i topoi, i capisaldi della propria poetica e il ruolo dell’artista nell’attuale congiuntura socio-culturale, ipotizzando sviluppi ipotetici e tragitti espressivi futuri.

Alla luce di questo nucleo tematico, il museo calabrese risultata la sede ideale agli occhi dell’artista, anche in virtù del legame territoriale storico con quella dimensione ideale rappresentata dalla Magna Grecia, quell’aura di ancestrale origine culturale con la Meg le Hell s citata a partire dallo storico greco Polibio nel II secolo a.C.

La contiguità con luoghi come lo Scolacium, il lembo di terra fra due golfi, dove l’Odissea ci ricorda il passaggio di Ulisse e gli echi di una classicità millenaria; un nostos che riporta le opere d’arte nel territorio al quale sono appartenute da sempre.
Avanzare senza mai perdere di vista la ricca eredità del passato e allo stesso tempo affrancarsi da una visione conservatrice, “polverosa” archivistica della tradizione, trasformandola in un propulsore di produzione creativa, questa la radice della visione di Pelletti.
Una visione che l’artista ha saputo rinnovare e temprare alla luce dei suoi molteplici fulcri di interesse.
Non solo la scultura ma anche il design e l’architettura, ed in questo contesto che assimila le posizioni di Carlo Scarpa, che ha saputo guardare in maniera “oltraggiosa” al passato in forma moderna e Aldo Rossi che ha guardato al moderno come un’illusione antica.

Un approccio attivo e simultaneo con il passato e il futuro, con l’eredità dell’arte occidentale ed extraeuropea, caratterizza l’incedere espressivo di Pelletti, perfettamente simbolizzato dal Giano (che cristallizza in sè anche la dimensione classica occidentale e quella africana) presente in mostra.
Il Giano, divinità romana (ma anche latina e italica) degli inizi materiali e immateriali, che guarda contemporaneamente il passato e il futuro, la Grecia e l’antico continente africano da cui la razza umana proviene.
Una visione quella dell’artista allineata a quella di Novalis ma anche di Mahler, che vede nella custodia del fuoco creativo e non nella sterile adorazione del passato, il motore per la produzione artistica, un canone estetico e concettuale ma anche etico, imprescindibile per la comprensione dello Zeitgeist e come guida per le future creazioni.
“Il classico come il mito sono elementi che fanno parte integrante di ogni civiltà e cultura a tutte le latitudini; nessuna Civiltà né artista può pensare se stesso se non in relazione con un’altra civiltà e un’altra forma d’arte che servono da termini di comparazione e costruzione di identità” afferma l’artista.

La visione sincretica di Pelletti, unisce le radici culturali e artistiche comuni dell’occidente, ab Homero principium, con quelle di natura culturale e antropologica che, complice il Mediterraneo antica culla di cultura e commercio si estendono all’Africa e al vicino Oriente; sulla scorta di quanto anche Phillyda Barlow – protagonista del padiglione britannico della Biennale di Venezia 2017 – afferma: “La scultura la più antropologica delle forme d’arte”.

L’artista da vita ad un personalissimo universo mitopoietico, in cui le iconografie reperite alle varie latitudini, convivono e agiscono in sinergia per offrire all’osservatore un percorso percettivo complesso e articolato.
Una dimensione quella creata dall’artista, in cui possano dialogare in maniera paritaria le sculture di Fidia e quelle Fang del Gabon, il canone di Policleto con le opere dei Baul della Costa d’Avorio o dei Dogon del Mali, le poesie dell’ellenico Callimaco con quelle del poeta senegalese Birago Diop.

Da un punto di vista concettuale e stilistico, Pelletti in grado di mettere in sinergia l’esperienza sensibile e analitica di Winckelmann rispetto al Laocoonte con quella “speleologica” di Lessing, di ricerca di immagini originarie, archetipiche. Fondendo cosè nel processo di ricerca e rielaborazione estetica e tematica la dimensione storico-diacronica di Cronos e quella puntuale e opportuna insita nella singola immagine-reperto di Kairos.

Nella concezione comune, il classico è ciò che viene prima e anticipa, delineando le categorie di originario e paradigmatico, ciò a cui si rifaranno nei secoli le varie ondate “classiciste” che con andamento carsico si succederanno.
Nell’impostazione concettuale di Pelletti, il classico si allinea al pensiero di Paul Valery espresso nei Vari t s nel 1944, secondo cui “L’essenza del classicismo venire dopo. L’ordine presuppone un disordine che esso viene a sistemare”. “tutto ciò che è solo moderno viene prima o poi superato e l’antico assume la sua piena funzione quando riemerge da un periodo di oblio, per diventare ancora più vero e presente”, come sostiene l’artista toscano.

In sintesi per l’artista, il classico è un’attitudine alla sperimentazione continua di nuove soluzioni formali in grado di generare un ordine, un complesso strutturale con regole proprie, per omogenizzare istanze eterogenee, comporre armonicamente le spinte all’entropia.
Questo concetto di classico investe anche il rapporto con la memoria personale e collettiva e il tempo instaurato dall’artista; una relazione attiva in linea con il principio che possiamo definire di memoria e ricordo efficace, espresso esaustivamente da Italo Calvino,: “La memoria conta veramente se tiene insieme l’impronta del passato e il progetto del futuro, se permette di fare senza dimenticare quel che si voleva fare, di diventare senza smettere di essere e di essere senza smettere di diventare”.
In questo senso va interpretato il complesso delle opere esposte, come elementi che fanno parte allo stesso tempo della memoria collettiva e come elementi dell’universo mitopoietico dell’artista, quindi come ipotesi di forme nuove corrispondenti alla sensibilità contemporanea e allo Zeitgeist.

L’arte classica per Pelletti non è solo un vastissimo e preziosissimo serbatoio di exempla di soluzioni estetiche e tecniche, ma prima di tutto un atteggiamento e una predisposizione etica ancor prima che estetica. Di cui l’artista chiamato a farsene carico come indicano le parole di Novalis in esergo.
Ogni epoca modella una specifica idea di classicità per crearsi una propria identità.
Questo fenomeno illustra come il concetto di classico riguardi non solo il passato ma si estenda al presente e di conseguenza proietti una luce sul futuro.
In questo processo risiede il senso dell’assunzione da parte dell’artista dell’eredità del classico e la sua trasmissione; saperne cogliere il messaggio intrinseco, lo spirito del tempo e farlo interagire in maniera sinergica, allo stesso tempo con le istanze linguistiche della contemporaneità e le proprie pulsioni espressive.
Questa sinergia fra istanze artistiche attraverso il tempo, genera un’ibridazione che rappresenta la cristallizzazione storica e l’istanza generatrice che si estende al futuro del classico.

Come accennato all’inizio del testo, alla definizione dell’universo mitopoietico dell’artista, contribuiscono in maniera determinante i ricordi e le esperienze accumulati nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, quando guidato dal nonno scultore, visitava a Pietrasanta i laboratori artigiani, gli atelier degli artisti plastici, le fonderie, le cave di marmo,
gli antiquari e le gipsoteche, stabilendo una relazione biunivoca con l’antichità classica, i materiali, le tecniche e le procedure.
Pietrasanta e il distretto della produzione artistico-plastica Apuo-versiliese dove è cresciuto e si è formato, rappresentano una sorta di accademia diffusa, in cui si contribuisce a costruire e rinsaldare il legame con il passato e con il classico intesi in un’accezione ampia.
Un’accezione che spazia dalla capacità di produrre e trasmettere conoscenza di generazione in generazione, un saper-fare che prende vita e si alimenta dalla dialettica astrazione-produzione, artista-artigiano, si propaga alla conoscenza dei materiali in tutte le loro capacità organolettiche e chimico fisiche fino alle insite potenzialità espressive e si estende fino alla consuetudine con le varie tecniche di lavorazione, il tutto ricomposto sotto l’egida di una diffusa attitudine alla bellezza e all’armonia.
Questo complesso di fenomeni si propaga nei secoli sin dai tempi in cui Michelangelo sceglieva e lavorava i preziosi marmi per i suoi capolavori, collaborando con le maestranze artigianali del territorio Apuo-versiliese.

Un saper-fare che viene tramandato di generazione in generazione secondo uno schema che era già proprio nelle botteghe rinascimentali, che contempla una sinergia fra la componente astratto-progettuale e quella di conoscenza tecnica, del cosiddetto “mestiere”.
Il binomio artista – artigiano e maestro artigiano - apprendista sono i due poli che alimentano questa produzione di conoscenza e la sua trasmissione nei secoli ed alla luce di questo fenomeno che si formato Massimiliano Pelletti.
L’artista nel corso degli anni ha saputo integrare questo tipo di conoscenza “informale” dell’homo faber assimilata attraverso l’esperienza, l’inesausta pratica scultorea e la frequentazione di tutti gli agenti del contesto plastico con lo studio assiduo e la ricerca delle fonti e della storia dell’arte, con particolare attenzione alle tecniche e ai materiali.

Questi ultimi rappresentano un aspetto che travalica ampiamente la mera dimensione di supporto espressivo per diventare motore del processo creativo e istanza coautoriale.
Un atteggiamento “orientale” quello assunto dall’artista, che conferisce alla realtà nelle sue molteplici manifestazioni una responsabilità creativa, una condivisione delle responsabilità autoriali con l’artista.

Non è possibile nessun progresso da parte dell’artista, a livello di capacità elaborativa, tecnica e progettuale senza la conoscenza diretta, l’esperienza diretta delle difficoltà imposte dai materiali e dalle procedure di lavorazione produttiva.
L’idea e il processo formativo connesso, nascono dalla conoscenza dei materiali e dell’ampio spettro di soluzioni che lo accompagna, queste sono le convinzioni dell’artista.

I materiali con le loro caratteristiche chimico-fisiche, le loro asperità e soprattutto imperfezioni e le incrostazioni – tutti fenomeni causati dallo scorrere del tempo – suggeriscono ipotesi formali e compositive, sussurrano possibilità di elaborazione e indicano le tecniche.
Per sfruttare queste potenzialità espressive dei materiali stessi, all’artista richiesta una predisposizione etica improntata all’ascolto e all’umiltà.

La capacità di saper interpretare dettata dall’approfondita ricerca, sommata all’attitudine alla sperimentazione, completata dall’umiltà che permette di condividere l’istanza autoriali con la dimensione materica stessa.
Come sosteneva Bachelard, l’opera d’arte nasce dall’incontro tra l’immaginario dell’artista e l’immaginario proprio insito in ogni materia, governata dalle categorie primarie di duro e morbido e dalle metafore generative di concavo e convesso e soprattutto si alimenta dal confronto-scontro fra l’artista e la materia.

La creatività viene intesa come l’idea che diventa forma attraverso la dura contrapposizione energetica fra l’homo faber e la materia, scandita da una serie di tappe all’insegna della dialettica attrazione-aggressività.
Il tutto è subordinato ad un’attitudine etica che sostiene la sua poetica, che si sposa in maniera sinergica con i tempi lunghi e la decantazione alla base dell’autodisciplina dell’artista; condizioni indispensabili all’interpretazione delle suggestioni dei materiali, al ripensamento.
Questa impostazione impone all’artista il controllo completo del processo creativo, dalla fase astratta-progettuale a quella del coordinamento realizzativo; avere cioè una padronanza completa – ed elastica – grazie all’intelligenza del metodo, in linea con il pensiero di Leon Battista Alberti “tum mente animoque diffinire”.
In questo contesto, risiede uno dei principi base della strategia creativa dell’artista, che vede il processo importante alla stregua del prodotto finale.

E’ la mappatura dei segni lasciati dal tiranno Cronos sulla pelle e nella struttura dei materiali quella che segue Pelletti.
Onice bianco, travertino, marmo nero fossile nord africano, calcare grottoso, onice smeraldo, onice carta da zucchero e numerosi marmi e pietre sconosciuti perchè le cave sono chiuse da anni a volte da secoli, ma l’incessante ricerca di Pelletti viene spesso premiata con frammenti e piccoli blocchi, inadatti alla produzione industriale o quella artistica- accademica, ma perfetti per colui che ascolta gli atomi delle pietre.
Nella scelta delle tecniche come dei materiali l’artista non segue regole precostituite ma principi ispirati ai processi di produzione artigianale; quella processualità che Peyron definiva come : “Formativit in quanto fare, che mentre fa, inventa il modo di fare “.
Su questo elemento si innesta anche quello che si può definire il valore conferito all’errore che diviene nell’ambito della poetica dell’artista toscano elemento motore del processo creativo.

Solo attraverso l’imperfezione dei materiali e la “deviazione” rispetto ai percorsi si attivano percorsi concettuali inediti e si stimola la creatività, ma soprattutto si costretti a definire strategie e soluzioni che arricchiscono il bagaglio esperienziale dell’artista.
Nei confronti dell’arte africana Pelletti ha compiuto una vera e propria ricerca applicando un criterio analitico identico a quello utilizzato per l’arte classica, greca e latina.
Affrancando cioè l’arte dell’antico continente da quella dimensione subalterna e coloniale che ha relegato per molti secoli la produzione espressiva al rango di manufatti artigianali di valore documentale e antropologico.
Con un piglio da filologo ha scandagliato la produzione espressiva africana, alla ricerca di topoi e simboli ricorrenti, tecniche e materiali e soprattutto i canoni.

Il concetto di classico radicato nella ricerca plastica dell’artista toscano, ha saputo evolversi dall’ammirazione per la scultura greco-romana e quella dei suoi “profeti”, Michelangelo in primis e Canova e Bernini subito dopo (includendo l’attrazione che questi riflettevano della poetica del frammento e del non-finito), per conquistare un confronto critico e un approfondita ricerca su figure a noi più “vicine” come Rodin e Medardo Rosso, che aprono a cavallo fra XIX e XX secolo una nuova concezione di scrittura plastica e di relazione con il contesto spaziale e con la percezione-fruizione. Questi artisti hanno rappresentato anche il ponte verso una ricerca che si indirizzava nella direzione di forme extra europee.
L’ammirazione per Michelangelo e poi Canova, che ha il merito di aver fatto raggiungere alla scultura il culmine della sua purezza estetica, non ha impedito a Pelletti di analizzare le varie forme di dissolvimento progressivo della struttura plastica, le modalità con cui gli artisti iniziano a erodere e graffiare le forme agli inizi del XX secolo, quando, l’idea e la sua traduzione tecnica iniziano a stringersi la mano e a creare un rapporto simmetrico, celebrato a breve dalle avanguardie storiche.

Un processo di erosione e corruzione progressivo e la connessa perdita del piedistallo e della dimensione celebrativa su cui Pelletti ha posto grande attenzione analitica, fino agli esiti estremi, dal grido di Arturo Martini del 1946 (“scultura lingua morta”) all’impronta dei piedi calcata sulla base di Manzoni (“Base Magica” 1961) passando per il feticismo dell’oggetto consumistico del Pop e quello Ned Dada e Noveau Realist per arrivare all’Arte Povera e oltre.

Ha particolarmente attratto lo scultore toscano la libertà da schemi e pregiudizi linguistici e tematici riscontrabile nella scultura di “pittori” come Gauguin Picasso e Matisse (soprattutto le opere prodotte fra il 1890 e il 1913) a cui aggiunge Derain, Vlaminck, Renoir (gli esperimenti plastici effettuati in tarda età), Degas e Bonnard, accomunati dall’attrazione per la scultura tribale.
Edgar Degas, che nel 1881 alla sesta mostra degli impressionisti esponeva la Danseuse de quatorze ans (statua in cera di 98 cm, abbigliata con un vero tutu di tulle e scarpette di satin e nastro di seta nei capelli), che fece affermare a Joris Karl Huysmans “E’ il solo tentativo moderno in scultura tra quelli che conosco”, rappresenta un esempio di evoluzione del concetto di classico (postura, mix di idealismo e realismo..).
Una riflessione a parte è stata dedicata dall’artista a figure come Jacob Epstein, Ernst Ludwig Kirchner e Henri
Gaudier Breska.

Alla mole di ricerche si è aggiunta ovviamente la sperimentazione di figure come Brancusi e Modigliani, che palesava macroscopici riferimenti all’arte tribale.
Se per gli artisti operanti a cavallo fra il XIX e il XX l’arte tribale coronava il desiderio di individuare un repertorio di forme e una risonanza spirituale radicalmente alternativa rispetto alla tradizione europea della stanca scultura accademica, per Pelletti, la scultura extraeuropea (africana ma anche oceanica) ha costituito un affrancamento dagli schemi linguistico-espressivi rigidi e preconfezionati di molta scultura contemporanea.
Gli artisti di fine 800’ intendevano liberare il linguaggio della scultura dalla teatralità rappresentata dal verismo naturalistico, dai manierismi stilistici e dai virtuosismi tecnici, per Pelletti, si tratta della liberazione da un paradigma di forme e modelli espressivi riletti in maniera stereotipata nel corso del XX e XXI secolo (anche alla luce del marketing e della promozione ...) e attingere a un repertorio di forme e soluzioni espressive e spirituali libere.

Anche l’aspetto tecnico assume grande rilevanza per l’artista toscano, nel contesto dell’analisi del linguaggio della scultura extraeuropea.
Nella maggior parte delle forme scultoree arcaiche, popolari e cosiddette primitive, la tecnica impiegata quella del taglio diretto, molto diffuso sin dai tempi preistorici fino al Medioevo, per cadere in disuso nel Rinascimento, soppiantato da metodi di esecuzione più complessi ed elaborati, derivanti dalla secolarizzazione della statuaria.
Il taglio diretto strettamente radicato alle civiltà rivolte alla vita spirituale, dove gli oggetti d’arte svolgono una funzione religiosa e/o rituale (come nelle civiltà arcaiche) o anche socio-relazionale ( nel caso di Pietrasanta e del distretto apuo-versiliese).
La tecnica del taglio diretto richiama anche quel sentore primordiale di contatto materico, di scontro fisico fra artista e materiali descritto anche da Bachelard3, getta un ponte con un passato titanico, che face pronunciare a Baudelaire le famose frasi in occasione del Salon del 1846 “La sculpture est un’art des caraibes.., “roba da barbari e primitivi”.4

La dimensione tecnica delle sculture africane contribuisce in maniera determinante a costituire la loro natura di oggetti autonomi a fornirgli quella forza di impatto e la loro sintetica presenza plastica, rafforzata dalla frontalità ieratica.
Un’analisi quella di Pelletti riguardante la scultura africana che ha riguardato un ampio ventaglio di iconografie; dalle sculture in pietra scistosa, pre-dinastiche del IV e V secolo a.C. dell’Egitto e quelle Sapi della Sierra Leone in avorio del XV-XVI secolo, passando per quelle in legno baga bulinits della guinea risalenti al XIX secolo, per arrivare alle sculture Nuna del Burkina Faso del XVIII sec., a quelle baoul della Costa d’Avorio della seconda metà del XIX sec. (terracotta, metallo, legno..) alle sculture dedicate a Gou (divinità del ferro lavorato e della guerra) della repubblica del Benin (in ferro e legno).
La lista sarebbe ancora molto lunga, ma vale la pena citare in questo repertorio costruito da Pelletti nella sua ricerca, le sculture nok, in terra cotta, risalenti a un periodo che oscilla fra il V sec. A.c e il V sec. D.c, quelle Sokoto (in terra cotta) – entrambe della Nigeria – e quelle bangwa del Camerun (in legno).

La ricerca ha superato quella dimensione che vede le opere africane immutabili nel tempo, quando in realt posseggono una loro antichità e classicità (sono state classificate opere anteriori al I sec .d.C come testimoniano le opere esposte nei musei antropologici) e un’ evoluzione nell’uso dei materiali che dal legno ha conquistato la maestria con la terracotta e che soprattutto, non anonima ma anzi ha i suoi maestri riconosciuti (basti citare il maestro di tara o quello cosiddetto dei Capelli a Cascata).
Figure di varia natura, spesso femminili che avevano anche una funzione rituale e religiosa, come la Venere nella cultura romana.
La Venere “erosa” presentata in mostra dall’artista, rivela l’incessante lavoro del tempo, che erode non solo i materiali ma anche i concetti e i valori sottesi alla scultura, che si liquefanno nel corso dei secoli nel contesto della civiltà occidentale.
Venere – il corrispettivo della greca Afrodite - una delle dee romane più importanti, canone di bellezza ed eros, considerata l’antenata del popolo romano (sulla scorta di Enea), svolgeva un ruolo fondamentale nelle festività e nei riti religiosi, alla stregua di alcune figure scolpite dei Fang del Gabon, che erano considerate guardiani dei reliquiari.
La scelta – in alcuni casi installativa – dell’allestimento anch’essa connessa a una precisa opzione strategica con finalità espressive operata dall’artista.

Lo spazio nella sua poetica assume un’importanza a livello espressivo paragonabile a quella dei materiali e delle soluzioni tecniche.
Il cosiddetto “contesto”, l’ambito spaziale in cui l’opera viene ospitata diviene un unicum con l’opera stessa, per massimizzare le potenzialità espressive.
Pelletti articola la sintassi dello spazio, facendo dialogare la dimensione scultorea con quella architettonica per amplificare le possibilit percettive del fruitore.
Affrancare quest’ultimo dalla cosiddetta “schiavitù dell’angolo retto” che vede l’essere umano nel contesto contemporaneo isolato dalla dimensione naturalistica e dalla soggettività percettiva, per essere “contenuto” dalla dimensione architettonica.

Offrire a quest’ultimo, attraverso la dialettica scultura-architettura un ampio ventaglio di possibilit percettive e narrazioni estetiche, per costruire una propria e soggettiva mappa fruitiva.
La dimensione installativa della mostra ospitata dal Museo calabrese, traduce il senso di un viaggio che dal passato classico, oltre le rovine (fisiche e culturali), utilizza l’eredità del passato e l’esperienza del presente come trampolino per il futuro.
Una pira, rovina di fasti passati e di arcaiche civiltà, disseminata di ritratti, icone e simboli di bellezza prodotti da arcaiche civiltà, che dal passato remoto continuano a perpetrare un messaggio di bellezza e fungono da corifeo per la potenza creatrice dell’individuo e della sua capacitàdi dare ordine (etico ed estetico) al caos.

Sa queste rovine sorge una venere, corrotta dal tempo ma ancora funzionale simbolo di bellezza trionfante e salvifica; un’immagine ottativa che simbolo e auspicio di continuità del classico e del suo messaggio di armonia per il futuro. Bellezza e potenza creatrice che attraversano il tempo come un’imbarcazione, che nonostante i potenti marosi dell’entropia connessa alla natura umana, giungono fino a noi, carichi di un messaggio simbolico e di un nobile retaggio, per continuare il viaggio verso il futuro come testimonia il complesso scultoreo in mostra, recante la serie di teste di varia foggia e iconografia.

Un’imbarcazione il cui prezioso carico giunto a noi attraverso i secoli, reca un sincretico tesoro culturale ed estetico, che fonde culture e iconografie, punti cardinali e miti, folklore e riti, Europa e Africa, superando barriere etniche, culturali, religiose e artistiche.
Queste opere collocate in maniera originale nello spazio, ribadiscono anche, per volontà dell’artista, quanto l’arte sia in grado di colonizzare lo spazio, di connotarlo in modo potente, tornando a ripetere ancora una volta, la necessità dell’atto creativo.
L’arte come soddisfazione della genetica pulsione scopica insita geneticamente in ogni essere umano sin dalla notte dei tempi.
Ultima considerazione, frutto delle conversazione con l’artista, la dimensione legata all’evento in senso letterale.
La progettazione e costruzione di una mostra per Pelletti, il raggiungimento di una dimensione liturgica che sospende (l’opera e lo spettatore) l’ordinario, i ritmi circadiani, caricandoli di un un surplus di intensità e ieraticità.
Un rito in cui l’artista e le opere in suo vece e lo spettatore-fruitore in veste di co-produttore, non ammettono repliche, ripetizioni uguali a se stesse.

L’artista orchestra le opere come una sequenza, una processione di epifanie e riflessioni diffuse che accordano opere e spettatori in una diversa partizione del percepito e del sensibile.
Un rito che si nutre di attesa che viene coreografata e distillata, caricandosi di nostalgia per un tempo ipotetico delle origini.
Su tutto l’incanto sospeso dell’offerta rituale rappresentata dall’opera, in cui si ridestano domande ancestrali sopite ma ancora vive.
Il tutto a ricordarci in un’amplificazione del concetto di classico che il passato contiene in sè i probabili germi del futuro, un futuro ancorato saldamente al passato, con un presente sospeso tra i due.
Per dirla come il personaggio di T.S. Eliot “Tempo presente e tempo passato sono forse presenti nel tempo futuro”5. Questo ci permette di affermare che le opere di Massimiliano Pelletti soddisfano in maniera esaustiva lo sguardo inteso nella sua accezione più ampia, grazie alla sapiente armonizzazione delle istanze derivanti dalla ricca eredit del passato e l’attitudine all’incessante sperimentazione e alla capacità di mettere in dialogo memoria collettive ed esperienza personale, dimensione biografica e riflessione universale.

 

1 Xavier de Mainstre “Voyage autour de ma chambre” 1794.
2 Martin Le Chevalier “Obsolete Heroes”, 2020.
3 Gaston Bachelard, La poesia della materia. Il sogno, l’immaginazione e gli elementi materiali. Come, 1997
4 Charles Baudelaire, Il pittore della vita moderna. (1863)

Alessandro Romanini

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